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Rahamim. Lingua, terra, misericordia
A cura di Francesca Brencio
Il dire
di Francesco Colia
Settembre 2013
Dove, quando e come un linguaggio è? Ci è sembrato ovvio dire: il linguaggio è solo là dove si parla e solo quando si parla. [1]
Dove si trova il linguaggio se non nella parola? L’uomo è l’unica creatura della terra in grado di utilizzare la parola. Cos’è la parola? Leggete ciò che è scritto, ascoltate ciò che si dice, parlate di ciò che sentite dentro di voi, dunque la parola trasfigura il mio dentro in una forma comprensiva per l’altro. Tuttavia, le ovvietà spesso nascondono dei grandi punti interrogativi. Abbiamo creato un complesso sistema di segni e convenzioni in grado di metterci in comunicazione; un linguaggio puramente umano, esclusivamente in-umano. Quello che siamo è nel linguaggio e il linguaggio fugge nella e dalla parola.
Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. [2]
Quanta responsabilità è assegnata ai pensatori quando questi utilizzano il pensiero nella sua dimensione più autentica. Ciononostante abitare nella dimora del linguaggio non significa sentirsi al sicuro da eventuali incomprensioni. L’uomo vuole costantemente dire qualcosa e lo fa con determinazione perché nella propria casa si sente un custode smarrito. Il dire non è soltanto un modo per esprimere una parte di sé, non è il semplice affermare se stessi. Il dire è apertura, universale condivisione tra me e il noi, tra il pensiero e la parola.
Nei linguaggi umani non c’è proposizione che non implichi l’universo intero. [3]
Molte cose si celano dentro di noi, alcune imperscrutabili e misteriose, altre così chiare da risplendere come una luce perenne nella nostra mente. Pensiamo, lo facciamo con naturalezza perché è la nostra struttura portante, la dotazione che ci rende unici. Perché il pensare suscita tante emozioni nell’uomo? Possiamo governare il nostro pensiero ma non possiamo tenere a bada tanto a lungo le nostre emozioni quindi utilizziamo la parola come una forma di difesa. Le emozioni sono fragili perché continuamente dominate dalla parola, così il dire è un costruire molteplici linguaggi, decifrare la mia brama di manifestare e la mia paura di serbare. Tuttavia, il dire matura la sua abilità espressiva nel discorso che istruisce le mie parole, sviluppando la capacità comunicativa e cognitiva del mio pensare.
Quando parliamo di linguaggio intendiamo ora la sua essenza determinata partendo dal dire, ossia dal λόγoϛ esperito in modo iniziale. In quanto dire, il pensiero è riferito all’essere presente di ciò che è presente, cioè all’essere. La casa dell’essere si è detto in precedenza è il linguaggio, pensato ovviamente in base alla sua essenza, che si cela nel dire. Essere e pensiero, nonché la contesa originaria fra i due, hanno la loro dimora nel linguaggio, la cui essenza risuona nel λόγoϛ e va pensata a fondo in riferimento al dire. [4]
Il nostro iniziale esperire nella parola, il dire, fa riferimento al pensiero, pensiero che plasma ciò che è presente. Esso elabora quello che i sensi percepiscono, lo fa in modo brutale e diretto cercando per quanto possibile di dominare le emozioni. L’eco del silenzio scuote spesso il nostro sentire e gli innumerevoli tentativi del dire di afferrare l’essere presente si dileguano nell’inadeguatezza del vivere. Il linguaggio è una dimora che segna il suo tempo nel discorso, in quei piccoli giochi del rappresentare.
Agli albori della grecità λόγoϛ significa piuttosto «discorso»... il λόγoϛ domina in quanto dire nel senso del far apparire e del portare dinanzi. [5]
Quello che rappresentiamo, l’essere presente, è un riflesso del nostro sentire o un semplice riverbero d’immagini? Che ci piaccia o meno, il dire è un portare dinanzi, è un offrire. Il discorso è un far apparire, è quel partire dalla dimora in direzione del perire. Così il dire, sommerso dai pensieri del custode, inizia il suo enigmatico viaggio con l’offrire tutto quello che si scaglia sui suoi sensi. Tuttavia, il discorso porta a compimento quello che il pensiero intuisce come spazio di condivisione?
Il mondo, in sé, non è ragionevole: è tutto ciò che si può dire. Ma ciò che è assurdo, è il confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza. [6]
Viene tratto in salvo il linguaggio dal desiderio violento dell’uomo di chiarezza e questo avviene soltanto quando riusciamo a trasmettere le nostre percezioni in segni e soluzioni. Il mondo non è ragionevole, come le nostre emozioni, e questo scatena in noi una volontà di chiarezza incontrollabile. Il dire non solo restituisce ciò che è nascosto nel nostro profondo e nell’irrazionale che ci circonda, ma si manifesta come una disposizione del custode-pensatore alla comprensione. Si vuole conoscere intensamente il mondo dentro e fuori di noi e lo si fa grazie alla casa dell’essere.
DENTRO
hai dentro la tua malattia
hai dentro la tua cura
hai pioggia dentro il sole
hai ruggine e capriole
ogni saggezza come ogni follia
la gioia e la sua nostalgia
quelle parole che non trovi mai
come quelle che scordare non puoi
tutto è dentro
quello che hai
quello sai
è dentro
(Niccolò Fabi)
Si fugge nella e dalla parola perché tutto è “dentro” e vogliamo gridare questo nostro sentire nella forma più naturale, unica e potente che possediamo. La fuga del pensare sarà indirizzata sempre nella parola e nei segni che identificano o quantomeno catturano le nostre sensazioni. La cura o la malattia del nostro esistere soffia come un vento che vuole essere dominato e ciò può avvenire soltanto in quell’inspiegabile casa-linguaggio. In questa esistenza che brancola tra domande e attese, cerchiamo dei contenuti, delle risposte che possono lenire le nostre incertezze. Ecco allora affiorare quel profondo abisso che risiede nel nostro intimo, “quelle parole che non trovi mai” perché ciò che siamo e tentiamo di determinare è un mistero immerso nel non-senso.
L’abisso che c’è fra la certezza che io ho della mia esistenza e il contenuto che tento di dare a questa sicurezza, non sarà mai colmato. [7]
Tuttavia, il dire non solo vuole far apparire il nostro “dentro” ma lo vuole comunicare. Quello che sentiamo di dire lo facciamo sempre a qualcuno. Non importa se ci sarà una mediazione tra il sentire e il dire, quello che portiamo dinanzi è un’apertura al mondo. Il mondo è sempre in ascolto, in precario equilibrio tra l’accogliere e il respingere. Può l’ascoltare, il mondo, sopire il nostro abisso? Siamo pensatori che custodiscono, che cercano di condividere il proprio dentro con il mondo ma ciò può accadere solo quando ci spogliamo delle nostre paure più profonde. Ci sentiamo estranei a noi stessi, esprimiamo questo disagio in tanti modi così l’aver cura, il far apparire spesso è una richiesta. Il richiedere, in ogni caso, è sempre un appello e gli inviti molte volte possono generare forti delusioni.
Dire qualcosa è sempre al tempo stesso dire a qualcuno, a un ascoltatore. [8]
Pertanto, quello che diciamo è rivolto sempre a qualcuno e questo qualcuno è un altro diverso da me. Il linguaggio non è una questione individuale ma riguarda tutti noi. Il dove si parla è un problema esclusivamente dell’uomo e tale capacità, quella di parlare, è una spiccata volontà di dire, di tirar fuori questo dentro, di far apparire.
Dopo un certo tempo, si può dire che “avere” non sia, dopo tutto, una cosa così piacevole come “volere”. Non è logico, ma spesso è vero. [9]
Voler dire, raccontare, costruire, il linguaggio è l’architettura portante dell’esistenza umana. L’uomo si racconta con la parola e con essa si difende, ma lo fa sempre come apertura verso l’altro, il mondo. Così il dire è un aver cura del proprio pensiero, del pensiero, custode di un vivere che regala sempre e soltanto sorprese. In bilico tra il voler sentire e il voler dire, il pensatore-custode non può fare altro che essere con il mondo.
Gli Altri sono piuttosto quelli dai quali per lo più non ci si distingue e fra i quali, quindi, si è anche. [10]
[1] M. Heidegger, Logica e linguaggio, trad. it. di U. Ugazio, Marinotti, Milano 2008.
[2] M. Heidegger, «Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994.
[3] J. L. Borges, L’Aleph, a cura di T. Scarano, trad. di F. Tentori Montalto, Adelphi, Milano 1998.
[4] M. Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo, a cura di P. G. Jaeger e F. Volpi, Adelphi, Milano 2002.
[5] Ibidem.
[6] A. Camus, Il mito di Sisifo, trad. di A. Borelli, Bompiani, Milano 2001.
[7] Ibidem.
[8] M. Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo, cit.,
[9] Mr. Spock in Star Trek, Seconda Stagione, Episodio 5, Il duello (Amok Time).
[10] M. Heidegger, Essere e Tempo (1927), trad. it di P. Chiodi, Torino, UTET 1969.
Francesco Colia si è laureato in Filsofia presso lUniversità degli studi Roma Tre, con una tesi su La crisi della ragione tecnica da Heidegger alla Filosofia contemporanea italiana. Nel dicembre del 2010 ha fondato la rivista Filosofi per caso, trimestrale di filosofia metropolitana, arte e cultura, della quale, oltre a curare la rubrica CineSofia, è a tuttoggi responsabile artistico della fotografia. Ha partecipato a Seminari per Rai News e ad interviste radiofoniche finalizzate alla diffusione della filosofia, avvalendosi di un linguaggio che, attraverso unattenzione voluta alle emozioni, susciti interesse e motivazione in un pubblico non specializzato.
Mark Rothko, Green or maroon, 1961
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